Performing Arts Practice in Conflict Zones – Teatro di scambio
Testo di Ettore Chiummo
„E così ho deciso“ – Sono passati ormai più di tre anni dal primo allarme al mercato del pesce di Wuhan, un evento che ha determinato una grande svolta nella vita di tutti gli esseri umani. Il passaggio dal vecchio al nuovo mondo ha subito un’accelerazione supersonica e, con esso, le spaccature all’interno della società globale si sono allargate, generando un numero di conflitti ancora maggiore rispetto a prima, armati o più subdoli e sottili. Per questa ed altre ragioni, quella mattina d’inverno del 2022, mentre sedevo nel freddo della veranda di quel bar, ho deciso che la proposta di Daniel Bausch mi interessava. In quanto responsabile della formazione continua dell’Accademia Dimitri, mi proponeva di prendere parte alla prossima edizione del CAS (Certificate of Advanced Studies) in Performing Arts in Conflict Zones.
Il passaggio dal vecchio al nuovo mondo ha subito un’accelerazione supersonica e, con esso, le spaccature all’interno della società globale si sono allargate, generando un numero di conflitti ancora maggiore rispetto a prima, armati o più subdoli e sottili.
Cos’è il CAS PAC 3?
Si tratta di un percorso di studi che mira a formare operatori culturali che, attraverso il teatro, riescano ad agire in contesti di conflitto. Il corso prevede quattro moduli, tre dei quali sul suolo svizzero ed uno in un’area geografica lontana dalla nostra zona di comfort. Nello specifico i primi due sono di preparazione, il terzo prevede un’esperienza di tre settimane sul campo ed il quarto è di riflessione sulla pratica. Le due precedenti edizioni si erano svolte nel Kurdistan iracheno, a Maxmûr. Anina Jendreyko, la docente, conosce bene questo luogo e la popolazione curda, che resiste da decenni contro i continui attacchi e abusi da parte dei governi alleati della Turchia. La guerra è latente e può riaccendersi da un momento all’altro: questa imprevedibilità è proprio una caratteristica di una zona di conflitto e per questo è importante “rimanere totalmente aperti”, pronti a cambiare i piani. Purtroppo Erdoğan, in vista delle elezioni, ha sferrato nuovi attacchi su tutto il Kurdistan, colpendo anche Maxmûr, e pertanto non è stato possibile recarvisi. La nostra meta è stata invece Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, un Paese molto diverso, ma in una situazione altrettanto delicata.
Pertanto, le persone hanno sviluppato una grande consapevolezza delle risorse di cui dispongono e della necessità di condividerle. Un pensiero che non ha risparmiato neanche me e colleghi e colleghe europee, durante la doccia e i pasti.
Il conflitto in Etiopia
I volti che sfilano per le strade di Addis Abeba tradiscono la convivenza di una moltitudine di etnie diverse e stupisce scoprire che sul suolo etiope si parlano oltre ottanta lingue. La religione è parte integrante della vita quotidiana e le confessioni più diffuse sono il cristianesimo copto etiope e l’islam, a parità di numeri. Tutta questa diversità culturale interna rende l’Etiopia una terra di immensa ricchezza, ma anche di grandi conflitti. Tra i più devastanti, quello scoppiato in Tigray nel 2020 tra il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray e l’attuale presidente Abiy Ahmed. Con un lascito di oltre 800.000 morti, ha chiaramente influenzato la vita di tutto il Paese, pur essendo combattuto in un’area circoscritta. Addis Abeba non ne è mai stata colpita direttamente e pertanto la guerra ci è sembrata più distante di quanto effettivamente fosse. Invece, siamo stati testimoni di un altro dramma molto evidente: la povertà. Strade che pullulano di mendicanti affamati e assetati, case strette per nuclei famigliari numerosi, l’abissale giro di prostituzione… È questa una realtà che permea le vite di tutti e con la quale ognuno si deve confrontare quotidianamente. Pertanto, le persone hanno sviluppato una grande consapevolezza delle risorse di cui dispongono e della necessità di condividerle. Un pensiero che non ha risparmiato neanche me e colleghi e colleghe europee, durante la doccia e i pasti. In generale, la condivisione è parte integrante del modo di vivere locale ed il senso di comunità è molto più sviluppato che in Europa al giorno d’oggi. Lo abbiamo percepito fin dai primi giorni con i nostri nuovi amici del Fekat Circus.
Imparare a scambiare
Oltre ai partecipanti europei, al CAS prendono parte anche persone del luogo, nel caso di questa edizione, giovani artiste ed artisti di circo che studiano, si allenano e si esibiscono con il Fekat Circus. Si tratta di una realtà di circo molto attiva, fondata quindici anni fa dall’acrobata appena diciottenne Dereje Denge. Da lui e da tutti i nostri nuovi amici ed amiche, abbiamo appreso un modo diverso di guardare il mondo, di condividere, di mangiare, di celebrare e di danzare. D’altro canto, anche noi abbiamo portato il nostro bagaglio culturale e, nello specifico, quello per cui Dereje ci ha chiamati: il teatro. Infatti, questi giovani professionisti e professioniste del circo non avevano mai avuto la possibilità di studiare teatro prima, perché, pur avendo una gran voglia di cimentarsi, in Etiopia l’offerta formativa in questo campo è pressoché inesistente. Abbiamo così passato le nostre giornate a fare teatro, proponendo diversi allenamenti ad hoc e creando una pièce, che è stata presentata tre volte ed è rimasta nel repertorio del Fekat Circus. Attraverso gli esercizi teatrali prima e condividendo anche le pause ed il tempo libero poi, abbiamo imparato a conoscerci e a comunicare, poiché non solo l’inglese non era sempre la lingua in comune, ma i nostri modelli di comportamento risultano molto diversi tra loro.
Una società multiculturale non è sinonimo di pari diritti fino a quando il pensiero interculturale non viene assimilato. Rispettare le differenze tra sé e l’altro, accettarle senza nasconderle, imparare a gestirle da entrambi le parti è il primo seme di pace.
Per esempio, in Svizzera sarebbe impensabile che una persona appena conosciuta ti offra il goursha, imboccandoti direttamente dalle sue mani. Riserveremmo un simile gesto ai genitori o, magari, all’intimità della coppia… Elementi come questo sono andati ad arricchire la messa in scena teatrale, totalmente calata in un contesto etiope, formando un codice di comportamenti leggibili per tutti noi. Questo è il significato di interculturalità, cioè lo scambio paritario tra diverse culture, creando le basi per comprendersi e risolvere potenziali conflitti. Una società multiculturale non è sinonimo di pari diritti fino a quando il pensiero interculturale non viene assimilato. Rispettare le differenze tra sé e l’altro, accettarle senza nasconderle, imparare a gestirle da entrambi le parti è il primo seme di pace.
È stato un monito per ricordarmi che non voglio essere né un colono né un missionario, bensì un operatore teatrale venuto ad apprendere come gestire un conflitto attraverso il teatro, nel segno dell’interculturalità.
Accettare le contraddizioni
Dare spazio alle differenze significa anche riconoscere le grandi contraddizioni che possono sorgere durante un simile lavoro. Ho dovuto imparare ad assumere la mia posizione sociale, la mia provenienza e la mia storia. In quanto italiano, il confronto con il passato coloniale del mio Paese è stato un grande schiaffo. Nella scuola italiana, infatti, si affronta con una superficialità spaventosa. L’Italia, nell’ultimo secolo, ha tentato di invadere l’Etiopia per ben due volte e, nonostante gli etiopi affermino con orgoglio il loro primato di unica nazione africana mai colonizzata, l’occupazione fascista ha avuto effetti devastanti. Di fronte alla chiesa di San Giorgio, monumento alla resistenza etiope, non ho potuto fare a meno di sentirmi co-responsabile di tutti i conflitti che hanno insanguinato l’Etiopia dall’invasione italiana ad oggi. Tuttavia, di tutti questi pensieri potevo solo prendere atto, accettare le contraddizioni tra le mie buone intenzioni e la storia. Senza ignorarle, ma osservandole. È stato un monito per ricordarmi che non voglio essere né un colono né un missionario, bensì un operatore teatrale venuto ad apprendere come gestire un conflitto attraverso il teatro, nel segno dell’interculturalità.
La consapevolezza del gioco crea un ambiente di fiducia, dentro del quale si apre uno spazio per la comunicazione e l’ascolto, elementi essenziali nella risoluzione di un conflitto. Tale capacità trasformativa del teatro porta a far affiorare le nostre risorse più recondite, che non credevamo di avere e che ci permettono di trovare nuove soluzioni di fronte a situazioni di difficoltà.
Perché il teatro?
Come è risaputo, tutto il teatro si basa sul conflitto e, proprio per questo, esso è un mezzo straordinario per trattare il tema. Giocare (to play, jouer, Spielen) a combattere un duello di coltelli o di parole, ci permette di approcciare al conflitto con leggerezza, toccando anche argomenti più pesanti e persino traumatici con grande libertà. La consapevolezza del gioco crea un ambiente di fiducia, dentro del quale si apre uno spazio per la comunicazione e l’ascolto, elementi essenziali nella risoluzione di un conflitto. Tale capacità trasformativa del teatro porta a far affiorare le nostre risorse più recondite, che non credevamo di avere e che ci permettono di trovare nuove soluzioni di fronte a situazioni di difficoltà. Un percorso al quale prende parte anche il pubblico durante gli spettacoli, soprattutto se hanno un finale partecipativo sul modello del teatro forum come nel nostro caso. Come quel giorno ad Addis Guzo, centro di assistenza per persone disabili, che in Etiopia hanno una vita di estreme difficoltà. Assistere al coinvolgimento con cui queste persone hanno partecipato alla discussione finale, proponendo attivamente le loro opinioni all’interno di quella comunità non privilegiata, è stata la più grande spinta motivazionale che io potessi ricevere per proseguire questo lavoro. Non mi resta dunque che augurarmi che al teatro venga riconosciuta la sua incontrovertibile efficacia come strumento per affrontare le situazioni più precarie, anche in Europa. Imparare a rispettare le differenze è per me la chiave per costruire un futuro più pacifico e credo che, all’infuori delle utopie, tutti e tutte ne sentiamo oggi il bisogno. Ciò che abbiamo creato durante queste tre settimane ad Addis Abeba, con i ragazzi e le ragazze del Fekat Circus, ne è la prova.
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